La direttiva CSRD è stata emanata dalla Commissione europea con lo scopo di aumentare la trasparenza delle aziende riguardo ai loro impatti ambientali, sociali e di governance, attraverso obblighi di rendicontazione più rigorosi per molte imprese e requisiti specifici sia per la comunicazione sulla sostenibilità che per la verifica di queste informazioni.
Il 6 luglio 2024 è la data prevista dalla direttiva CSRD per il recepimento da parte degli Stati membri.
Nell’ordinamento italiano il 16 febbraio 2024 è stata pubblicata la bozza del decreto attuativo della direttiva CSRD, elaborata dal Dipartimento del Tesoro e dalla Ragioneria Generale dello Stato, ed è stata messa in pubblica consultazione fino al 18 marzo 2024.
Durante la consultazione alcune associazioni di categoria hanno sollevato una serie di dubbi relativi alla struttura del decreto.
In questo contenuto approfondiremo la portata della direttiva CSRD e il contenuto del decreto di recepimento italiano.
Direttiva Responsabilità Sociale d’Impresa: l’ambito di applicazione
La CSRD amplia gli obblighi di rendicontazione di sostenibilità a tutte le grandi imprese e gruppi, comprese le PMI quotate (escluse le micro-imprese), e introduce standard europei di rendicontazione (ESRS) sviluppati dall’EFRAG. Inoltre, stabilisce l’obbligo di sottoporre la rendicontazione di sostenibilità a una verifica di conformità.
La direttiva CSRD ha lo scopo principale di armonizzare la disciplina inerente agli obblighi di rendicontazione della sostenibilità aziendale. Per fare questo uno dei primi step compiuti è stato l’estensione dei soggetti interessati dagli obblighi di rendicontazione, ovvero tutte le grandi imprese, comprese le PMI quotate in borsa.
Inoltre, sono stati introdotti degli standard elaborati dall’Organo consultivo EFRAG, specifici per settore di appartenenza, proprio per rispondere all’esigenza di definire delle regole sulla rendicontazione di sostenibilità uguali per tutte le imprese coinvolte.
Secondo la direttiva CSRD, le imprese obbligate a redigere il Bilancio di Sostenibilità (o Rapporto di Sostenibilità) sono quelle di grandi dimensioni, sia quotate che non quotate, che rispondono ad almeno uno dei seguenti criteri:
- Hanno più di 250 dipendenti;
- Possiedono un patrimonio di almeno 20 milioni di euro all’anno;
- Generano ricavi netti superiori a 40 milioni di euro.
Inoltre, anche le società non europee che realizzano un fatturato minimo di 150 milioni di euro nella zona UE sono tenute a redigere il Bilancio di Sostenibilità obbligatorio.
Le imprese dovranno ottenere la verifica della conformità del Bilancio di Sostenibilità da parte di un revisore legale o di una società di revisione contabile, seguendo un processo che inizialmente raggiunga un livello di sicurezza limitata e poi si evolva verso un livello di sicurezza ragionevole.
Questo tipo di controllo risponde a uno dei principi più importanti della direttiva CSRD: la reasonable assurance, una regola secondo la quale lo stesso tipo di controllo che si effettua sul bilancio di esercizio deve essere fatto anche sul Bilancio di Sostenibilità.
In Italia la Consob sarà responsabile della vigilanza sulla conformità per le società quotate, mentre non è prevista ulteriore vigilanza per le società non quotate.
Dal diniego dei fornitori indipendenti al sistema sanzionatorio: i punti di attrito post consultazione
L’Articolo 5 della CSRD stabilisce che i paesi membri dell’UE devono recepire la nuova Direttiva entro 18 mesi, quindi hanno tempo fino al 6 luglio per integrarla nei rispettivi ordinamenti nazionali.
In Italia, il 16 febbraio 2024 è stata pubblicata una bozza del decreto attuativo, preparata dal Dipartimento del Tesoro e dalla Ragioneria Generale dello Stato, e resa disponibile per la consultazione pubblica fino al 18 marzo 2024.
Uno dei punti più controversi emersi dalla consultazione riguarda la decisione di non permettere anche ai fornitori indipendenti di servizi di attestazione di offrire servizi di assurance.
La Commissione Europea, nel testo della Direttiva 2022/2464, aveva auspicato che gli Stati Membri “offrissero alle imprese la possibilità di accedere a una gamma più ampia di fornitori indipendenti di servizi di attestazione della conformità della rendicontazione di sostenibilità”.
Ciò avrebbe permesso di ottenere l’attestazione non solo dai revisori legali di bilancio, ma anche da enti indipendenti di attestazione, con l’obiettivo di migliorare “la qualità della revisione” e di creare “un mercato della revisione più aperto e diversificato”.
La Francia, come primo Stato membro a recepire la Direttiva nel proprio ordinamento, ha subito adottato l’opzione di estendere la facoltà di fornire servizi di assurance sia a revisori autorizzati che a organismi terzi accreditati.
L’Italia, invece, ha scelto un approccio diverso. Ha deciso di non estendere immediatamente questa facoltà e ha invece incaricato la CONSOB e il MEF di realizzare uno studio congiunto entro tre anni dall’entrata in vigore del decreto.
Questo studio dovrà valutare l’entità del fenomeno, la capacità del mercato di gestire l’aumento dei soggetti obbligati alla rendicontazione di sostenibilità, e gli eventuali oneri e benefici derivanti dall’introduzione dei prestatori indipendenti di servizi di attestazione.
Confindustria ha criticato la decisione del governo italiano, sottolineando il rischio di un aumento dei tempi utili alla revisione dei documenti.
Un altro tema di interesse per le associazioni d’impresa è stato il sistema sanzionatorio previsto nel decreto di recepimento. Assirevi, Assonime, Confindustria, Abi, Ania e il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, hanno suggerito di rivedere tale sistema perché considerato troppo simile a quello previsto per i bilanci finanziari.
Il decreto stabilisce che le violazioni siano punite secondo le norme sulle false comunicazioni sociali, prevalentemente di natura penale (Articoli 2621-2622 del Codice Civile), e con le sanzioni amministrative pecuniarie previste per il mancato deposito presso il Registro delle imprese.
Anche per il sistema sanzionatorio la Direttiva aveva lasciato agli Stati Membri la libertà di adottare il sistema ritenuto più adeguato. I principali paesi dell’Unione Europea hanno optato per un sistema meno severo rispetto a quello italiano.
Per questa ragione le associazioni d’impresa temono che il sistema sanzionatorio italiano possa “penalizzare la competitività del sistema italiano e incentivare il già preoccupante fenomeno del trasferimento della sede sociale in paesi europei con sistemi di vigilanza ed enforcement meno restrittivi”.